Per un anno e mezzo il suo talento cristallino lo abbiamo ammirato anche in Italia.
O meglio per sei mesi, perché l’adattamento al calcio nostrano e, soprattutto, ai metodi e sistemi di mister Antonio Conte, è stato complesso, lungo e quasi senza esito.
Poi il gioiello, su punizione, in un derby di Coppa Italia, deciso all’ultimo respiro dalla specialità della casa, che ha letteralmente cambiato le carte in tavola della storia di Christian Eriksen con l’Inter ma anche della storia recente dei Nerazzurri.
Da separato in casa si è trasformato in uno degli anelli fondamentali dello scacchiere di quella che poi è diventata la squadra campione d’Italia.
“La mia intenzione era quella di venire all’Inter per vincere uno Scudetto, ci sono riuscito dopo un anno e mezzo, quindi ne sono incredibilmente felice”. Così aveva dichiarato il 23 maggio scorso, nel giorno della festa nerazzurra, qualche giorno prima che la sua vita cambiasse, o meglio, subisse uno di quegli scossoni che nella stra grande maggioranza dei casi in grado di mettere al tappeto. E non solo le carriere.
Era il pomeriggio del 12 giugno scorso. Con la sua Danimarca stava affrontando il debutto ad Euro2020, contro la Finlandia, quando a pochi istanti dalla fine del primo tempo il terrore è sceso sul Parken di Copenaghen.
Eriksen riceve palla, la stoppa di petto e si accascia, privo di sensi sul terreno di gioco.
Ci son voluti oltre 5 minuti di tentativi disperati di rianimazione cardiaca per far riprendere il suo cuore. Questo il lasso di tempo passato dal primo intervento prodigioso del compagno di squadra Kjaer e il momento del risveglio, dopo l’utilizzo del defibrillatore da parte dei medici.
“Ne ho 29” le sue prime parole di questa vera e propria seconda vita, rispondendo ad uno dei soccorritori che gliene dava 30 di anni.
Nei giorni successivi l’intervento chirurgico per installargli un defibrillatore cardiaco sottocutaneo, in grado di prevenire nuovi altri episodi di questo tipo.
Il protocollo, in Italia, per ottenere l’idoneità sportiva è rigidissimo, forse il più rigoroso d’Europa.
Morosini, Astori: casi diversi che però hanno segnato un movimento che non vuole correre rischi, sotto questo aspetto.
A dicembre, dopo un consulto con i medici italiani, la decisione: Eriksen non può più proseguire la sua avventura all’Inter.
Ma il ragazzo danese, che si era presentato alla Scala come uno dei migliori centrocampisti europei degli ultimi 10 anni, vuole giocare. Il calcio è la sua felicità. Lo si vede da come tratta il pallone. Ne è innamorato.
Scarpini indossati e via. Prima due settimane di allenamenti individuali a Chiasso, in Svizzera, a pochi chilometri dal confine italiano.
Poi altre due nelle giovanili dell’Ajax, squadra da cui era passato durante la sua carriera.
E infine la chiamata del Brentford, in Premier League. Lo stesso campionato che aveva illuminato prima di sbarcare in Italia.
L’esordio, nella nuova vita, il 26 febbraio. 259 giorni dopo quel pomeriggio del Parken.
Un ingresso al minuto 52, durante Brentford-Newcastle, al posto di un altro danese: Mathias Jensen. Un cerchio che si chiude. Era stato proprio Jensen, il 12 giugno scorso, a subentrargli nel secondo tempo (farsa) di Danimarca-Finlandia. Non era tra quei 10 posti letteralmente a scudo di quelli che potevano essere i suoi ultimi minuti. Non solo su un campo di calcio ma, proprio, della sua vita. Jensen, però, era parte di quel gruppo che, con la forza di ciò che aveva passato, ha
trascinato un intero popolo fino al sogno della semifinale dell’europeo.
Una settimana fa, poi, i primi 90 minuti completi.
Nell’ultimo weekend, quello appena trascorso, il primo vero gioiello del nuovo, vecchio, Eriksen.
Un assist di mancino, da manuale.
Un pallone telecomandato. Roba da Eriksen.
Bentornato per davvero, Christian.
(RV blog)